Legato ad Alberto Giacometti da una lunga amicizia, il critico d’arte americano James Lord accetta negli Anni Sessanta di posare per un suo ritratto. Sono due personalità forti, per usare un eufemismo: cosi, il confronto arrischia ad ogni istante, più che di esplodere, di protrarsi all’infinito nel tempo. E’ uno sguardo gradevolmente semiserio, ma sempre rispettoso sul grande scultore-pittore svizzero; per il quale, una delle prime particolarità dell’arte consisteva proprio nel fatto di rappresentare un atto inadempibile.
Basato sul diario annotato scrupolosamente da James Lord durante i diciotto giorni del suo soggiorno nell’atelier parigino dell’artista, Final Portrait sorprende. Pur costretto in quel claustrofobico labirinto ambientale e mentale, non arrischia mai di cadere nel tranello che gli tende la situazione. Al contrario, il film gioca, quasi si diverte e soprattutto cresce proprio scommettendo su quella impossibilità del concludere avanzando. Sulla forza di un eterno ricominciare, cosi vicino alla filosofia e all’arte di Giacometti.
Rinviare, stracciare, ricominciare, Geoffrey Rush è bravissimo nel rappresentare quell’aspetto della creazione; ingobbito com’è, la sigaretta costantemente riaccesa che gli penzola dalle labbra, la pettinatura arruffata, l’andatura a sghimbescio. Ma senza mai cadere (il faut le faire…) nella ripetitività: sottolineando, con il concorso del regista, gli sguardi furtivi, le mosse, i minimi riflessi. Tutte le esitazioni che traducono mirabilmente e con emozione il tema eterno, notoriamente irrisolto, dell’iinaccessibilità dell’oggetto artistico.